Sulla rivista Bioelectronic Medicine è apparso uno studio sui pazienti con malattia di Parkinson, che dimostra come la stimolazione del midollo spinale ha ridotto il dolore e migliorato i sintomi motori, sia come terapia singola che come terapia di salvataggio dopo interventi di stimolazione cerebrale profonda.
I ricercatori hanno reclutato 15 pazienti affetti dalla patologia.
L’età media dei pazienti era di 74 anni, con una durata media della malattia di 17 anni, e tutti provavano dolore non alleviato dai trattamenti ricevuti. Otto soggetti erano stati precedentemente sottoposti a stimolazione cerebrale profonda una terapia del dolore non invasiva in cui si utilizzano correnti elettriche per stimolare specifiche aree cerebrali, mentre i restanti sette pazienti avevano ricevuto solo trattamenti farmacologici.
A tutti i partecipanti sono stati impiantati elettrodi percutanei (attraverso la pelle) in prossimità delle vertebre cervicali o toraciche, utilizzati per effettuare una di tre modalità di stimolazione elettrica: stimolazione tonica continua, stimolazione ciclica (raffiche di 10–15 secondi seguite da pause di 15–30 secondi) o stimolazione a raffiche continue.
Tutti i pazienti hanno riportato un miglioramento significativo.
Il 73% dei soggetti ha mostrato un miglioramento medio del 12% nel test che misura la velocità di deambulazione per valutare la mobilità funzionale e l’andatura.
Il 64% dei pazienti ha riscontrato un miglioramento medio del 21% nel test che misura il tempo impiegato da una persona per alzarsi da una sedia, camminare per tre metri, voltarsi, tornare alla sedia e sedersi di nuovo.
«I risultati suggeriscono che la stimolazione del midollo spinale può apportare un beneficio terapeutico ai pazienti con Parkinson in termini di trattamento del dolore e dei sintomi motori, anche se servono ulteriori studi per determinare se il miglioramento della funzione motoria è dovuto ai cambiamenti neurologici causati dalla stimolazione o semplicemente dalla diminuzione del dolore», ha scritto il primo autore dello studio Krishnan Chakravarthy della University of California San Diego School of Medicine.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)