Chiara Casotti, cohouser presidente di Casematte, spiega la differenza tra cohousing e housing sociale e ne mette in luce obiettivi e fattività nel nostro Paese. Il cohousing è un’espressione anglosassone, che si può tradurre come “abitare collaborativo”. Indica una comunità intenzionale in cui più nuclei famigliari decidono di abitare vicini, collaborando: nuclei familiari - diversi per tipo, età, provenienza sociale e interessi - che hanno un loro appartamento privato più o meno grande e spazi comuni. L’housing sociale è un servizio che offre alloggi a canoni calmierati, promuove la formazione di smart communities con spazi condivisi, strumenti e servizi.
Più in generale, afferma, si può parlare di abitare collaborativo, ma bisogna fare molta chiarezza sui termini. L'abitare solidale, o housing sociale, è una condivisione totale degli spazi, spesso intorno a delle fragilità. Diversamente, nel cohousing le persone o le famiglie vivono in unità abitative completamente autonome, condividendo poi spazi comuni e servizi con gli altri cohouser.
Il cohousing nasce in Nord Europa negli anni Settanta, dalle "kollektìv_hus" svedesi della metà del '900, con spazi e servizi comuni per aiutare le donne a conciliare lavoro e famiglia. In Italia arriva negli anni Duemila e inizia a svilupparsi attraverso Cohousing.it di Milano che ha realizzato, nel 2006, l'Urban Village Bovisa.
I numeri in Italia sono ancora bassi (circa 30), perché i cohousing nascono da iniziative private non sostenute dallo Stato, come avviene invece in altri Paesi europei, dove esiste anche l'opzione dell'affitto. L’unica eccezione è “Porto 15” a Bologna. Nel nostro Paese, il cohousing si sta sviluppando per lo più al Nord: in Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Toscana. Tuttavia manca una legge che renda questi modelli residenziali un soggetto giuridico a tutti gli effetti e ne semplifichi la fattibilità. Fondamentale sarebbe la possibilità di accedere a un prestito senza dovere costituire una cooperativa o pagare la tassa rifiuti senza essere considerati un albergo.
C'è una proposta di legge per il riconoscimento delle comunità intenzionali, ma è ferma in Parlamento. Manca inoltre una cultura: una resistenza dovuta a una scarsa conoscenza. Per gli anziani, sostiene Casotti, è certamente una valida alternativa all'istituto. Emblematico è il caso di alcune donne anziane sole che vivevano in case di proprietà: sono state convinte o dal medico curante o dai parenti a vendere casa e ad usare i soldi per pagare un pensionato. L’alternativa migliore sarebbe stato il cohousing.
A Torino, conclude, nell’associazione Coabitare, un gruppo di pensionate giovani sta facendo pressione per realizzare un cohousing per donne anziane, sul modello di un'esperienza inglese di “Owch” che sta per “Older Women's Co-Housing”: un'esperienza che ha richiesto 16 anni di lavoro per essere messa in piedi. Il governo inglese da parte sua ha favorito lo sviluppo di questo modello con un finanziamento destinato, tra l'altro, alla realizzazione di un sito nazionale in cui confluiscano tutti i cohousing esistenti e quelli in via di realizzazione. In Italia, questo sostegno manca, così come non c'è un sito web di riferimento.
(Sintesi redatta da: Anna Costalunga)