Sono i quasi cento anni di una ennesima leggenda sull’oceano. Perché anche Tony Bennett era figlio di emigrati, John Benedetto il padre, Anna Suraci la madre, che il grande mare lo avevano attraversato in cerca di fortuna, esattamente come avevano fatto i genitori di Dean Martin, Frank Sinatra, Perry Como, Louis Prima, e ce n’è abbastanza per considerarla una storia molto italiana, un fondamentale e poco riconosciuto contributo del nostro Paese alla storia della musica.
Anthony, Tony, Bennett aveva iniziato nell’età dell’oro dei crooner, quando dall’albero maestro del jazz si cominciò a separare quel ramo gemmato di voci, una intera stirpe di cantanti che avevano a disposizione un'inesauribile miniera d’oro tracciata da giganteschi autori come Cole Porter, George Gershwin, Irving Berlin, Rodger Sand Hart, canzoni sofisticate e geniali, cibo divino per cantanti dotati di speciale sensibilità.
Erano bianchi, per lo più italoamericani, nemici della retorica e dell’enfasi delle interpretazioni strappalacrime. Eppure seducevano, Bennett in particolare, con quel fare da dolce gentiluomo dalla voce che ti accarezzava, capace di prenderti al laccio l’anima senza alcuno sforzo, apparentemente in pieno e controllato relax.
Il primo consiglio ricevuto fu quello di cambiare nome, da Benedetto a Bennett, e a darglielo fu Bob Hope. Il secondo fu del discografico che lo portò alla Columbia: non imitare Sinatra, che nel successo l’aveva di poco preceduto.
E così fece anche se l’ombra di “The Voice” Bennett l’ha inevitabilmente sofferta perché Sinatra doveva per forza essere il numero uno, il capo, guai a mettere in discussione il suo primato.
Eppure c’era tra i due un dialogo di rispetto: Sinatra una volta disse che Tony era il migliore (sottinteso dopo di lui, ovviamente) e Bennett ha ricambiato portando a compimento, dopo la scomparsa del rivale, una scuola di musica e arti che The Voice non fece in tempo a far nascere.
(Sintesi redatta da: D'Amuri Vincenzo)