«In quella notte del 1943, ero sulle spalle di Adriano Olivetti. E piangevo. Perché io, che non avevo ancora quattro anni, volevo stare con mia mamma Ursula, che portava invece sulle spalle mia sorella Eva, più piccola. Eravamo partiti a piedi da Lanzo d’Intelvi, sopra il lago di Como, dove eravamo sfollati. Nel bosco di montagna, bisognava rimanere in silenzio, per proteggere la nostra fuga verso la Svizzera. E, quindi, le mie lacrime e i miei singhiozzi costituivano un pericolo reale. Adriano, mentre camminava in salita con me sulle spalle, continuava a dirmi: “Piccolina, se stai brava, per te c’è questa cioccolata”. Io, dall’alto, guardavo la tavoletta di cioccolato bianco che lui mi mostrava e, per dispetto e perché naturalmente volevo la mamma e non mi importava nulla della cioccolata, rispondevo: “Io non la voglio la cioccolata bianca. Io la voglio marrone”».
Quella notte Renata Colorni bambina attraversò le Alpi fino a Bellinzona, la cittadina del Canton Ticino dove approdavano gli esuli italiani – in fuga chi per motivi politici e chi per ragioni razziali – dall’ultimo fascismo, che era insieme notturno, debole e violento. Per tutta la vita Renata – anzi, come si è detto per anni nell’editoria milanese “la Renata” – ha fatto proprio questo: ha attraversato. Ha attraversato il Novecento, con le sue contraddizioni e i suoi dolori, le sue personalità e le loro ombre, la scrittura e il pensiero che sta (o non sta) dietro di essa, il privilegio di lavorare con i libri e sui libri, la felicità bambinesca riconosciuta da chi sa che ci sarà sempre un altro Simenon – magari un titolo minore, non importa – o un Philip Roth («il più grande di tutti») da leggere per la prima volta o da rileggere. E lo ha attraversato misurandosi costantemente con gli autori più rappresentativi della narrativa e della poesia, della cultura civile e politica occidentale, in particolare europea.
Renata Colorni ha attraversato il Novecento con la forza di una vita intellettuale che assomiglia per rigore e per fertilità ai tagli su tela di Lucio Fontana e con la ineluttabilità di un destino familiare che ricorda un misterioso e articolato geroglifico egizio: la madre Ursula autrice di un emozionante e dimenticato Noi senzapatria e il padre, Eugenio Colorni, studioso di filosofia della scienza e di psicoanalisi e fra gli estensori del Manifesto di Ventotene, ucciso nella Roma del 1944 dalla Banda Koch; lo zio Albert Hirschmann teorico dell’economia dello sviluppo, la sorella Eva economista e moglie di Amartya Sen, il secondo marito della madre Altiero Spinelli – uno dei fondatori culturali e politici dell’Unione europea – come padre emotivamente e affettivamente acquisito.
Lei è stata una delle personalità culturali più influenti dell’editoria italiana. Ha iniziato a lavorare nel 1969 alla Franco Angeli. Quattro anni dopo era in Boringhieri – chiamata da Paolo Boringhieri – a curare la traduzione delle opere di Sigmund Freud. Dal 1979 al 1995 ha lavorato per Adelphi traducendo dal tedesco – anche – autori come Joseph Roth e Elias Canetti, Arthur Schnitzler e Thomas Bernhard. Ha assunto una centralità significativa quando, nel 1995, in Mondadori – su impulso di Gian Arturo Ferrari, direttore generale delle attività editoriali – le sono stati affidati prima i classici e i Meridiani e poi tutta l’editoria letteraria. Lei, che ha tanto letto e orientato, deciso e pubblicato, ha scritto l’anno scorso, per un piccolo e raffinato editore milanese, Henry Beyle, il libro Il mestiere dell’ombra. Tradurre letteratura e quest’anno, per lo stesso editore, ha tradotto La Sicilia e noi di Hugo von Hofmannsthal.
(Sintesi redatta da: Linda Russo)