A dieci anni dall'emanazione della legge n. 38/2010 «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore». Una norma che ha permesso di alleviare il dolore garantendo l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore di oltre 13 milioni di italiani che soffrono di malattie che causano persistenti sofferenze. Tumori, nevralgie, emicrania, endometriosi, fibromialgia, esiti da trauma, herpes zoster, neuropatia diabetica: sono solo alcune di queste aptologie. A dieci anni di distanza, è ancora attuale o va adeguata? Se ne è discusso nel corso di un convegno, «Legge 38/2010 dieci anni dopo: una legge di civiltà per una rete di qualità», promosso dalla Fondazione Isal - Istituto scienze algologiche, nel mese dedicato a «Cento città contro il dolore», iniziativa mirata a sensibilizzare e informare la popolazione sulla prevenzione e la cura del dolore cronico, che per il quinto anno consecutivo ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica come riconoscimento al suo valore pubblico.
La terapia del dolore rientra nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale deve assicurare a ogni cittadino su tutto il territorio nazionale. «Il dolore cronico non va sopportato ma curato e la legge lo riconosce quale condizione di malattia che influisce sulla salute delle persone e ne condiziona la vita, il lavoro, le relazioni sociali - spiega William Raffaeli, presidente della Fondazione Isal -. In questi dieci anni tanti passi sono stati fatti, ma molti restano da fare. È tempo di dare un nuovo slancio alla continuità delle cure, dall’ospedale al territorio, per non lasciare sole le persone sofferenti: il dolore cronico, soprattutto quello severo, genera disperazione, solitudine, disabilità. Grazie all’esistenza della legge, però - prosegue Raffaeli - in tempi di Covid-19 i servizi di terapia del dolore hanno potuto reclamare un diritto di esistenza, e quindi dare voce ai bisogni delle persone anche in un momento così tragico in cui c’è bisogno di lenire le sofferenze e umanizzare i percorsi di cura. Chi più della rete di cure palliative e di terapia del dolore può venir incontro a questi bisogni?».
Durante il lockdown, come tutte le attività ordinarie, dalle prestazioni ambulatoriali ai ricoveri, anche la terapia del dolore ha subito un contraccolpo. «L’emergenza Covid-19 ha messo in luce alcuni punti deboli della rete di terapia del dolore: se è vero che è stata gestito quasi sempre il dolore oncologico, non è stato così per quello non oncologico - riferisce Giuliano De Carolis, presidente di Federdolore Sicd- Società dei clinici del dolore -. Più del 90 per cento dei centri di terapia del dolore hanno ridotto in maniera drastica l’attività, in alcuni casi sono stati chiusi, ad oggi ci sono ancora molti centri che a stento riescono a riprendere le attività ordinarie». «Durante la prima fase del Covid - interviene Raffaeli – molte persone sono state assistite a distanza, anche dalla Fondazione Isal con uno sportello gratuito, questa volta lavoreremo perché le persone possano avere accesso diretto negli ospedali: il principio di cura è valido per tutte le malattie e il dolore, al pari delle altre, deve essere riconosciuto e rispettato».
(Sintesi redatta da: Righi Enos)